ARTICOLI

Chiara Belli Chiara Belli

Lunga vita ai cibi fermentati

I cibi fermentati sono una delle più antiche forme di conservazione degli alimenti, con una storia che risale a migliaia di anni fa. Questo processo non solo preserva gli alimenti ma ne aumenta anche il valore nutrizionale e apporta numerosi benefici alla salute.

La fermentazione è un processo naturale in cui i microrganismi, come batteri, lieviti e muffe, convertono i carboidrati (come zuccheri e amidi) in alcol o acidi organici. Il tutto avviene in condizioni anaerobiche, ovvero in assenza di ossigeno, e porta alla produzione di composti che aiutano a preservare il cibo e conferirgli sapore, aroma e consistenza unici.

La fermentazione è stata utilizzata dalle antiche civiltà come metodo di conservazione prima dell'avvento della refrigerazione moderna. Le tecniche variavano a seconda delle risorse locali e delle tradizioni culturali, te ne descrivo qualcuna:

  • Yogurt e Kefir: Le prime evidenze di yogurt risalgono a più di 4.000 anni fa nelle regioni dell'Asia Centrale, dove il latte vaccino veniva lasciato a fermentare naturalmente. Il kefir, originario delle montagne del Caucaso, veniva preparato utilizzando "granuli di kefir", una combinazione simbiotica di batteri e lieviti.

  • Crauti e Kimchi: I crauti, fatti con cavolo fermentato, erano comuni nelle cucine europee, mentre il kimchi, una variante coreana, veniva preparato con cavolo e altre verdure, spezie e pesce fermentato. Entrambi i metodi utilizzavano la salatura per favorire la fermentazione lattica.

  • Miso e Tempeh: In Giappone, il miso veniva prodotto fermentando soia con un fungo chiamato Aspergillus Oryzae. In Indonesia invece, il tempeh veniva preparato fermentando i semi di soia con il fungo Rhizopus Oligosporus.

Ma perché se ne parla?
E’ importante consumarli?

I cibi fermentati hanno un impatto straordinario sulla salute intestinale grazie alla loro ricca fonte di probiotici, batteri benefici che vivono nel nostro intestino. Questi microrganismi aiutano a mantenere l'equilibrio della flora intestinale, migliorando la digestione e alleviando problemi comuni come gonfiore e stitichezza. Un intestino sano, lo sappiamo tutti, è strettamente collegato al benessere generale del nostro corpo.

Ma i vantaggi dei cibi fermentati non si fermano qui. La fermentazione aumenta la biodisponibilità dei nutrienti negli alimenti, rendendoli più facilmente assorbibili dal nostro organismo. Per esempio, fermentare i cereali riduce il contenuto di fitati, che altrimenti legherebbero minerali essenziali come zinco e ferro, rendendoli meno disponibili per l'assorbimento. Questo significa che il nostro corpo può trarre maggior beneficio dai nutrienti presenti nei cibi fermentati rispetto ai loro equivalenti non fermentati.

Inoltre, il processo di fermentazione ha la capacità di ridurre gli antinutrienti presenti in alcuni alimenti, migliorando la loro digeribilità e il loro valore nutrizionale complessivo. Questa preziosissima caratteristica rende i cibi fermentati particolarmente utili per chi ha difficoltà digestive o per chi desidera massimizzare l'apporto nutrizionale della propria dieta.

 

Ma non è solo il corpo a beneficiare dei cibi fermentati:
anche la mente ne trae vantaggio.

Ormai a tutti è nota la stretta connessione tra l'intestino e il cervello, nota come asse intestino-cervello. Consumare cibi ricchi di probiotici può avere effetti positivi sull'umore e ridurre i sintomi di ansia e depressione. Un intestino sano, quindi, può contribuire a un miglior benessere mentale e a una maggiore resilienza allo stress.

Studi recentissimi (di gennaio 2024!) indicano che gli alimenti fermentati esercitano effetti profondi sull’asse intestino-cervello attraverso la modulazione del sistema enteroendocrino, influenzando gli ormoni intestinali come la serotonina, il neuropeptide Y, il peptide 1 simile al glucagone, la grelina e la somatostatina. Per questo è tanto importante iniziare a familiarizzare con questo tipo di alimenti e provare a consumarli almeno 2-3 volte a settimana (magari iniziando da quelli un po’ più “semplici” come il kefir!).

Infine, riscoprire i cibi fermentati significa anche abbracciare pratiche alimentari sostenibili e tradizionali. Preparare cibi fermentati in casa non solo riduce lo spreco alimentare, ma promuove anche un consumo più consapevole. Questi alimenti rappresentano una connessione con le nostre radici culinariee una riscoperta di metodi di conservazione naturali che sono stati utilizzati per secoli.

Scopri di più
Chiara Belli Chiara Belli

I test delle intolleranze sono davvero utili?

Test delle intolleranze sì o no? Sono validi strumenti per capire se abbiamo problemi di malassorbimento o se un determinato cibo ci fa male, non facendoci perdere magari peso? Con la newsletter di oggi, che forse ti farà un po’ sospirare, spero di chiarirti definitivamente tutti i dubbi.

Partiamo da una premessa doverosa:
c’è un’enorme differenza tra le allergie e le intolleranze alimentari,
spesso ritenute la stessa cosa.

I termini "allergia" e "intolleranza" indicano entrambi una reazione indesiderata quando il nostro organismo viene in contatto con una determinata sostanza, ma dal punto di vista clinico sono completamente diverse.

Le allergie alimentari coinvolgono il sistema immunitario. Quando una persona allergica ingerisce un determinato alimento, il corpo lo riconosce come una minaccia e reagisce producendo anticorpi chiamati IgE. Questi anticorpi determinano il rilascio di sostanze, come l’istamina, che provocano vari sintomi, immediati e potenzialmente gravi, in relazione all’organo coinvolto: orticaria, gonfiore, difficoltà respiratorie e, in casi estremi, anafilassi.
Esempi comuni di alimenti che possono causare allergie includono:

  • Arachidi

  • Frutta a guscio

  • Latte

  • Uova

  • Crostacei

Le allergie alimentari possono essere confermate attraverso test cutanei (Patch test, Prick test, ecc.), esami del sangue e, in alcuni casi, test di provocazione orale sotto controllo medico.

Le intolleranze alimentari, al contrario, coinvolgono l’apparato gastrointestinale ma non il sistema immunitario. Sono generalmente legate alla difficoltà di digerire certi componenti alimentari. I sintomi delle intolleranze sono spesso meno gravi rispetto alle allergie e possono includere disturbi gastrointestinali come gonfiore, diarrea e crampi addominali che possono manifestarsi ore o addirittura giorni dopo aver consumato l'alimento.

Queste reazioni avverse al cibo costituiscono ancora una delle aree più controverse della medicina: non sono sempre chiari i meccanismi che ne stanno alla base e c’è ancora molta incertezza sulla sintomatologia clinica, sulla diagnosi e sui test che vengono utilizzati per effettuarla. Di conseguenza, ci sono differenze di opinione sulla diffusione di questi disturbi e sul loro impatto sociale. Personalmente, però, mi affido sempre alle certezze che la scienza ci dà in un preciso momento storico. Come disse qualcuno, fra 20 anni in medicina si scoprirà che la metà delle cose che ritenevamo giuste sono in realtà sbagliate. Bisogna capire a quale metà abbiamo creduto maggiormente….

AD OGGI, e questo è bene ribadirlo, le uniche intolleranze alimentari riconosciute dalla comunità scientifica sono:

  • Lattosio (zucchero presente nel latte)

  • Glutine (proteina presente nel grano, nell'orzo e nella segale)

Questo perché esistono dei sistemi di diagnostica specifici e validati (come per es. il Breath Test nel caso del lattosio) che, anche se ripetuti 100 volte, danno sempre lo stesso risultato.

Esistono dei “test alternativi” (per esempio il test citotossico, sì… quello che probabilmente hai fatto anche tu almeno una volta nella vita spendendo 200 euro inutilmente, ahimè!) per diagnosticare le intolleranze alimentari, ma sono privi di attendibilità scientifica e non hanno dimostrato efficacia clinica. Ne esistono di molto fantasiosi come il Vega Test, il test dell’analisi del capello, il test delle boccette ripiene di liquido: invito a diffidare di qualsiasi specialista nel campo sanitario che si affida a questi strumenti. Non hanno nessuna validità e soprattutto potere diagnostico!

Questo vuol dire che NON ESISTE l’intolleranza al lievito, o l’intolleranza alla cipolla. Piuttosto, i fastidi che avvertiamo quando ingeriamo questi o altri alimenti (ad esclusione di quelli che causano un vera intolleranza!) sono da associarsi a squilibri della nostra flora batterica intestinale che non è sufficientemente in salute e non riesce a digerire in maniera ottimale. La soluzione, quindi, non è eliminare quell’alimento che ci causa un disturbo ma riparare la nostra flora batterica attraverso un’opportuna integrazione e un piano alimentare ad hoc (che, paradossalmente, deve prevedere un’ampia varietà di alimenti per poter “riabituare” l’intestino a tollerare tutto, ma davvero tutto).

Il trattamento per le VERE intolleranze alimentari, come per le allergie, consiste nell’eliminare dalla dieta gli alimenti che provocano la reazione.

Ma allora perché quella volta che ho eliminato pizza e pane
che mi gonfiavano tantissimo ho perso anche peso?

Semplice, perché eliminando tutti i lievitati (pane, pizza, dolci), pensando di avere un’intolleranza al lievito… in realtà hai operato una semplice restrizione calorica, che ti ha permesso di perdere il peso. Stessa cosa vale per qualsiasi altra forma di alimento.

Pensaci bene: di solito gli alimenti che gonfiano o indispongono maggiormente sono quelli che contengono molti carboidrati complessi o molti grassi (primi fra tutti: i formaggi). Pensiamo allora di avere un’intolleranza ai carboidrati o ai latticini, quando in verità questi sono alimenti che, a prescindere dalla loro presenza di glutine e lattosio, sono difficili da digerire da parte del nostro intestino e richiedono del lavoro in più. Se ne abusiamo, il nostro apparato gastroenterico ne risentirà, ma questo non significa che siamo intolleranti… semplicemente non dobbiamo mangiarne troppi perché densi di energia!

Scopri di più
Chiara Belli Chiara Belli

Cosa posso fare per rinascere in primavera?

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
— Alda Merini, Vuoto d'Amore 1991

Per quanto se ne dica, la primavera da sempre è la stagione della rinascita, del risveglio dal letargo, del RINNOVAMENTO. Le stagioni hanno tutte un loro fascino, ma la primavera porta con se dei significati importanti, che fanno parte della nostra natura umana: mai stazionare, sempre cambiare, sempre fiorire. L'essere umano ha bisogno di sbocciare con ciclicità, di avvertire sotto la propria pelle un lavoro di rinnovamento che alla fine esplode, come un cambio di muta. La primavera ci dà la possibilità di cambiare, di migliorare, di farci esprimere alle nostre massime potenzialità. E poi è la stagione dei Sakura, la massima fioritura dei boccioli di ciliegio!

Il cibo, in questo, riveste un ruolo fondamentale: se è vero che siamo ciò che mangiamo, la nostra alimentazione diventa una chiave di svolta in questo processo
di rinnovamento e rinascita.

La cosa sorprendente della Terra è che produce in ogni stagione gli alimenti di cui l’uomo necessita in quell’esatto periodo. Per questo motivo dovremmo sempre mangiare alimenti di stagione.

Ma cosa possiamo fare attivamente per darci la possibilità di sbocciare e rinascere insieme alla primavera?

1) DEPURARE. La verdura di stagione ci viene in aiuto. Scegliamo verdure amare che stimolano il fegato, organo preziosissimo che elimina le scorie pericolose per il nostro organismo. Rucola, asparagi, puntarelle, cicoria, carciofi, catalogna, tarassaco, radicchio rosso, rabarbaro, prezzemolo, coriandolo. Sotto forma di insalata ricca prima di ogni pasto, o leggermente scottate in padella con un po' di olio EVO, alla piastra o alla griglia... le combinazioni sono davvero innumerevoli e basta un pizzico di fantasia per combinarle in modo gustoso. 

La depurazione non può che avvenire per mezzo dell'acqua. Bere, bere tantissimo! Anche sotto forma di the e e tisane, acque naturalmente aromatizzate con erbe e frutta, centrifughe, estratti, frullati. Anche in questo caso le verdure ci aiutano: oltre a quelle amare scegliamo quelle con più acqua, prime fra tutte: cetrioli, finocchi e sedano!

Un piccolo consiglio: riempite le vostre tavole primaverili di tzatziki! E' una salsa greca composta da yogurt greco, cetrioli, succo di limone, poco aglio scottato in padella e olio EVO. Provare per credere!

2) RIPRISTINARE. L'inverno porta con se febbri, raffreddori, malesseri. Il nostro sistema immunitario ha bisogno di essere ripristinato, e lo può fare grazie a un boost di vitamina C: fragole, kiwi, limoni, cedri, le ultime arance.

Per supportare la nostra massa muscolare che durante l'inverno può essersi un po' ridotta, aggiungiamo anche delle proteine. Scegliamo proteine nobili e poco pesanti, come carni leggere di pollo e tacchino, pesci magri come ricciola, pagello, rombo, calamari, seppie, totani (lo sai che anche il pesce ha una sua stagionalità? Prova a guardare qui), legumi freschi come fave e piselli.

3) NUTRIRE. Scegliamo cereali integrali in chicco come quinoa, amaranto, grano saraceno, farro e orzo, teff, riso. Il clima ce lo permetterà, questi cereali sono perfetti anche per delle insalate fredde combinate a verdure e legumi (e perché no, anche della frutta!). Possiamo anche optare per dei latticini "sapienti": scaglie di parmigiano, ricotta vaccina magra, yogurt greco full fat

 Con questa stagione però molti di noi sono anche afflitti da vari disturbi che vanno da un profondo senso di spossatezza a problemi di allergia ai pollini.

E’ cosa risaputa che l’arrivo della bella stagione dopo l’inverno aumenta il senso di spossatezza e malessere in soggetti particolarmente predisposti. In realtà sono sintomi legati ad una condizione che si associa, talvolta in maniera anche molto veloce, ai cambiamenti climatici di questi ultimi anni.

Infatti, anche se gli inverni sono meno lunghi e freddi, la tendenza è quella di passare bruscamente dal freddo al caldo, talvolta in pochi giorni, generando nel nostro corpo dei veri e propri “corto circuiti” ormonali. L’organismo fa fatica ad adattarsi a questi bruschi cambiamenti e i sintomi che esprime sono stanchezza, difficoltà di concentrazione, irritabilità, sbalzi di umore e ansia.
Si allungano le giornate e la luce solare va a stimolare tutto l’asse ormonale che ne risente a partire dall’ipotalamo, che è il regolatore del ritmo sonno-veglia, del ritmo della fame e della sete e, più in generale, di tutta la cascata ormonale.

In questo caso ci può venire in aiuto, ancora una volta, l’alimentazione: in primavera abbiamo bisogno di elementi che funzionino da regolatori e stimolatori del nostro metabolismo, come gli alimenti fermentati(yogurt o kefir), i legumi, perché contengono ferro, vitamine del gruppo B e proteine, ma anche l’avena. Quest’ultima è, infatti, un regolatore della funzione intestinale ma contiene anche potassio, magnesio e vitamina B1, che svolge un’azione fondamentale per la salute delle cellule nervose.

In un’alimentazione bilanciata in questa stagione dell'anno non dovrebbe mai mancare nemmeno la frutta secca e una piccola quantità di frutta essiccata, per l'alto contenuto di vitamine del gruppo B, di manganese, di fosforo, di ferro e di  magnesio: sto parlando di noci, mandorle, fichi, prugne secche e datteri.

Scopri di più
Chiara Belli Chiara Belli

Sonno e alimentazione: due facce della stessa medaglia

Più passano gli anni, più sottovalutiamo l'importanza di una notte di sonno riposante, quella che ci fa svegliare la mattina pronti per affrontare tutte le mansioni quotidiane. Dormire sufficientemente bene a volte sembra diventare un lusso, negli ultimi posti nella scala delle priorità. Ancor più raramente consideriamo quanto la nostra alimentazione possa influire su quanto e come dormiamo.

E’ bene invece tenere sempre a mente che il sonno non è soltanto un momento di riposo fisico, ma un processo fisiologicamente fondamentale per il benessere del nostro corpo e della nostra mente e che ha un legame fortissimo con ciò che mangiamo: se da una parte come e quanto mangiamo influisce sul nostro riposo, dall’altra una corretta igiene del sonno determinerà comportamenti alimentari più equilibrati.

Il sonno nella maggior parte degli esseri umani occupa tra il 20% e il 40% della giornata. E’ un requisito biologico essenziale per la vita umana, insieme al cibo, all’acqua e all’aria. Come il consumo di cibo, il raggiungimento di questo bisogno biologico richiede che l’individuo si impegni in comportamenti volontari. Cosa significa? Che esiste ancora molta variabilità nei comportamenti e nelle pratiche del sonno: decidiamo noi quando andiamo a dormire, in che modalità, cosa fare poco prima di coricarci. Questi comportamenti in parte derivano da decisioni personali, dall’altra sono anche socialmente guidati, dettati dall’ambiente e soggetti a fattori interpersonali. Ne deriva la considerazione che se abbiamo bisogno di migliorare la nostra educazione alimentare, non dovremo solamente attivarci dal punto di vista nutrizionale bensì agire coscientemente su tutto il contesto di vita a 360 gradi, a partire dalla qualità del nostro sonno.

Molti studi hanno trovato associazioni tra la durata e la qualità del sonno e l’adiposità viscerale e l’obesità: la breve durata del sonno sembra determinare un aumento di peso
nel tempo.

Oltre ad una maggiore probabilità di obesità, diabete e infiammazione sistemica di basso grado, il sonno insufficiente è anche associato ad un aumento del rischio di malattie cardiovascolari, ipercolesterolemia e aterosclerosi.

Ma come può determinare tutto ciò “solo” il modo in cui dormiamo?

La spiegazione è molto semplice: se il corpo non riposa bene durante la notte, il giorno successivo tenderà a recuperare e sopperire quella sensazione di discomfort che prova. Lo farà stimolando il cervello ad aumentare il consumo di alcuni alimenti come zuccheri raffinati, alimenti ultra processati, grassi saturi e alcool. Infatti, attraverso l’assunzione di questi alimenti viene sintetizzata la serotonina, conosciuta anche l’ormone della felicità, e la dopamina, il neurotrasmettitore della soddisfazione e dell’appagamento. La produzione massiccia di queste due molecole crea un boost di piacere temporaneo, che “inganna” il cervello facendogli ritrovare quella sensazione di relax che non ha provato la notte precedente.

Ogni volta che ci sentiamo a terra, anche per la mancanza di sonno, il nostro cervello rievoca quelle sensazioni di piacere provate inducendoci alla ricerca proprio di quel cibo che ci ha fatto sentire così bene.

Questo importantissimo rapporto di causa-effetto è orchestrato dalla melatonina, un ormone prodotto dalla ghiandola pineale. I livelli di melatonina nel sangue aumentano di notte (con un picco verso le 2:00) contribuendo a promuovere il sonno. Quando i livelli di melatonina sono bassi, possono influire negativamente portando a un aumento dell'appetito.

Il mancato sonno interferisce con la produzione di leptina e grelina, gli ormoni della sazietà e della fame.

Quante volte ci è capitato - dopo un viaggio intercontinentale in aereo con molte ore di fuso orario - di provare all’arrivo quella sensazione di nausea e di confusione, in cui non riuscivamo a capire se avessimo fame, o al contrario se fossimo sazi, o semplicemente stanchi? Dormire poco o alterare i nostri ritmi circadiani attraverso l’inadeguata produzione di melatonina (anche se per una causa piacevole, e ossia un viaggio dall’altra parte del mondo!) altera la produzione di leptina e grelina, due ulteriori ormoni prodotti rispettivamente dal tessuto adiposo e dallo stomaco che aiutano il nostro cervello a capire quando siamo sazi o quando siamo affamati.

Se dormiamo male la loro produzione viene alterata e il nostro cervello non capisce più quali ormoni produrre, e quando. Ne risulterà un comportamento alimentare completamente sballato, alla ricerca di zuccheri semplici quando non ne abbiamo effettivamente bisogno o a momenti di ipo-alimentazione ingiustificati.

Scopri di più
Chiara Belli Chiara Belli

I dolcificanti naturali: in base a cosa sceglierli?

E’ ormai di dominio pubblico il fatto che gli zuccheri semplici vanno fortemente limitati nella nostra dieta quotidiana: innalzano bruscamente la nostra glicemia per poi farla scendere altrettanto rapidamente, non sviluppano senso di sazietà e sul lungo termine possono contribuire allo sviluppo di numerose patologie, in primis diabete, malattie cardiovascolari, tumori, malattie neurodegenerative.

L’ideale sarebbe riuscire a disabituare il nostro palato dal sapore dolce evitando di aggiungere zucchero extra nei cibi e nelle bevande che prepariamo, o almeno limitare fortemente il loro uso a dei contesti specifici. Va anche sottolineato però che non tutti riescono facilmente in questo percorso di riadattamento sensoriale, e se vogliamo dirla tutta a volte non è nemmeno così necessario: se la nostra alimentazione di base è varia ed equilibrata, povera di alimenti processati e particolarmente trasformati non sarà di certo quella piccola quota di zuccheri in più durante il giorno a fare la differenza.

E quindi qui nasce la domanda: quando proprio non riusciamo a farne a meno, è meglio lo zucchero o il dolcificante? E fra i vari tipi di zucchero, qual’è il migliore?
Quello più “sano”?
 

Oggi non entrerò in merito alla controversa questione dei dolcificanti artificiali (i cui effetti cumulativi a lungo termine sono per certi versi ancora da chiarire), ma parleremo dei dolcificanti cosiddetti naturali.

In primis dobbiamo chiarire la differenza fra zucchero semplice e zucchero di canna, ma soprattutto la differenza fra quello grezzo e quello integrale. 

Zucchero bianco: il classico zucchero da cucina, è puro saccarosio e deriva dalla barbabietola da zucchero (Beta vulgaris saccharifera). Subisce molti processi di raffinazione prima di arrivare sulle nostre tavole. E’ privo di qualsiasi sale minerale e ha un indice glicemico molto alto (70).

Zucchero scuro: è lo zucchero di colore beige-marrone, estratto dalla canna da zucchero (Saccharum officinarum). Quello che noi troviamo comunemente ai bar è il GREZZO, e cioè raffinato. Nutrizionalmente non ha nessuna differenza con lo zucchero bianco, l’unica diversità nel colore è data dall’aggiunta di caramello o di melassa. Siamo portati erroneamente a pensare che sia più salutare di quello bianco, quando in realtà, l’unica differenza è costituita dallo zucchero INTEGRALE di canna, che non si trova ancora comunemente negli esercizi pubblici e nelle grandi distribuzioni (anche se qualcosa ultimamente si sta muovendo…). La consistenza dello zucchero integrale di canna è leggermente umida, la forma non è cristallina e l’odore ricorda vagamente quella della liquirizia. Si trova di solito nei negozi biologici o nelle sezioni equo e solidali dei supermercati. Rispetto allo zucchero bianco è più ricco di sali minerali (calcio, fosforo, potassio, zinco) e vitamine A, del gruppo B e C.  Il potere calorico è leggermente inferiore. Le quattro varietà più diffuse sono: 

  1. Mascobado: originario delle Filippine, è ottenuto con un metodo artigianale e semplice, ossia tramite spremitura delle canne e concentrazione del succo per evaporazione dell’acqua. E’ costituito da grani di melassa scure di varie dimensioni, la cui presenza in abbondanza è indice di qualità del prodotto.

  2. Panela: originario del Sudamerica, si ottiene mediante ebollizione a temperature elevate ed evaporazione del succo della canna. La melassa che si ottiene, viene successivamente versata in piccoli stampi che vanno a formare dei panetti, in seguito “grattugiati” dando luogo a uno zucchero farinoso e uniforme. 

  3. Demerara: Originario del Guyana, è un tipo di zucchero che subisce una parziale raffinazione. Rispetto al mascobado e al Panela ha un potere dolcificante maggiore e un sapore di liquirizia più tenue. 

  4. Guarapo: prende il nome dal succo colato della canna da zucchero. Ha un colore dorato e una consistenza farinosa, con profumo intenso e sapore leggermente aromatico.

Dal punto di vista calorico, non esiste grande differenza fra lo zucchero raffinato e quello integrale. Il secondo ha un impatto leggermente più morbido sulla glicemia, ma trascurabile. Consiglio di scegliere quello che si preferisce in base al gusto, poiché in questo caso quello che conta davvero è la quantità utilizzata.

Lo zucchero non è però l'unico dolcificante presente sulle nostre tavole; per un caffè o per la preparazione di dolci fatti in casa la natura ci offre tante alternative.

Sciroppo d’acero: Deriva dalla lavorazione del succo raccolto dall’acero zuccherino canadese (Acer Saccharinum), contiene pochissimo saccarosio e apporta meno calorie dello zucchero. Contiene alcuni minerali come zinco, manganese, ferro e calcio. Anche lo sciroppo d’acero può subire alcuni processi di raffinazione, motivo per il quale viene suddiviso in categorie, A B  C. Sarebbe sempre meglio scegliere quella più naturale, ossia la C.

Malto: è composto da maltosio, un altro tipo di zucchero. Esiste di tanti tipi a seconda della fonte di provenienza, quasi sempre cereali (riso, grano, farro, orzo). Ha una consistenza liquido-viscosa simile a quella del miele, il gusto è abbastanza neutro e può somigliare vagamente al caramello. Bisogna fare solo un po’ d’attenzione poiché ha un indice glicemico molto alto.

Succo d’agave: Proviene dall’omonima pianta messicana. Contiene quasi totalmente fruttosio ma il suo indice glicemico è molto basso (20-25), motivo per il quale anche il potere dolcificante è leggermente inferiore a quello del malto e dello sciroppo d’acero. Attenzione però alla presenza importante del fruttosio, che sulla nostra salute non ha un effetto benefico se usato in grande quantità.

Stevia: Originaria del Sudamerica, è una pianta da cui si ricava una polvere concentrata con un elevatissimo potere dolcificante (da 70 a 40 volte quello dello zucchero!). Non ha calorie e non influenza la glicemia. Unica nota stonata? Il suo sapore davvero forte che copre quello dei cibi e delle bevande che stiamo dolcificando.

Eritritolo: Si trova naturalmente in piccole quantità in alcuni alimenti, come frutta, verdura e alcuni tipi di lievito. Tuttavia, viene spesso prodotto industrialmente dalla fermentazione di zuccheri, solitamente da mais o grano. Uno dei principali vantaggi dell'eritritolo, così come per la stevia, è che ha un basso impatto sulla glicemia e sulla produzione di insulina, rendendolo una scelta popolare per le persone con diabete o insulinoresistenza. Nota dolente: può causare lievi effetti collaterali gastrointestinali in alcune persone quando consumato in grandi quantità, come crampi addominali o diarrea. È importante consumarlo con moderazione e prestare attenzione alla propria tolleranza individuale.

Tra tutte queste opzioni quale preferire quindi?

Tutte e nessuna! Sicuramente questi dolcificanti sono delle valide alternative a quelli di sintesi, che sento di sconsigliare a prescindere (anche se a zero calorie e con minima influenza sul gusto dei cibi). 

E’ però anche vero che preferire lo zucchero integrale o il succo d'agave allo zucchero raffinato pensando di fare del bene alla nostra salute non si rivela una scelta utile: nessuno di essi porta un reale beneficio. I sali minerali presenti nei dolcificanti naturali si trovano abbondantemente in una dieta bilanciata ed equilibrata fatta di frutta, verdura, legumi e cereali integrali.
Il consiglio è quindi quello di non abusarne e di usarli il minimo indispensabile solo per insaporire le pietanze.

Scopri di più
Chiara Belli Chiara Belli

Il controverso volto del latte

E’ in corso, ormai da svariati anni, un acceso dibattito scientifico circa il ruolo del latte vaccino nella nostra vita quotidiana. Fa bene? Fa male? E’ utile per le nostre ossa perché contiene calcio? Il suo consumo aumenta il rischio di tumori?

Se da una parte è presente una forte fazione di studiosi (e di linee guida) che ritiene che il latte sia un alimento prezioso perché contiene calcio e perché contribuisce alla crescita dei bambini e alla mineralizzazione delle ossa, dall’altra è presente un altrettanto forte gruppo che sostiene che il latte vaccino in realtà non sia così protettivo per la nostra salute.

La verità? Il numero di studi scientifici effettuati e la robustezza dei dati che presentano propendono a far pensare che sia un alimento sicuro e valido per la nostra alimentazione. Ma è altrettanto vero che esistono tanti studi scientifici - ugualmente validi - che mettono in dubbio questa condizione. Ed è giusto non ignorarli.

Come per la maggior parte delle cose, anche riguardo il latte la comunità scientifica non ha un’opinione unanime.

Non parleremo oggi del tema della sostenibilità e del benessere animale per produrlo, ma solo delle sue caratteristiche qualitative e dell’effetto sulla nostra salute.

Iniziamo con il dire che il consumo di latte vaccino da parte degli adulti è un’abitudine occidentale: in Asia, Africa e altre parti del mondo è utilizzato solo per i neonati e nei primi anni di vita.

Parlando inoltre da un punto di vista strettamente evoluzionistico, l’adulto non è pienamente “equipaggiato” per digerire il latte. Il lattosio, lo zucchero maggiormente presente, richiede per essere digerito la presenza di un enzima, la lattasi, prodotta solo nei primissimi anni di vita. Proprio la natura, però, è intervenuta con modifiche a livello genetico nel corso dei millenni, consentendo ad alcuni soggetti di mantenere buoni livelli di lattasi anche in età adulta e potersi cibare così di latte senza problemi.

Esistono poi casi più specifici ed estremi come per le persone fortemente intolleranti al latte, o persone allergiche alle proteine del latte, il cui consumo può essere davvero pericoloso.

Ma è vero che per avere buoni livelli di calcio il latte sia fondamentale?

Il calcio di per se è un minerale molto importante che serve alla costruzione e al mantenimento delle nostre ossa e dei denti, la produzione di cellule del sangue, la trasmissione degli impulsi nervosi e tante altre cose. 

I latticini ne sono sicuramente la fonte maggiore, seguiti dalle verdure a foglia verde (salvia, rughetta, cicoria, bieta, cavoli, broccoli, fagiolini) e dai legumi e cereali integrali.

C’è però un aspetto paradossale del latte che spesso non viene considerato: contiene degli acidi organici e delle proteine che richiamano il calcio stesso dalle ossa per essere smaltiti, e questo potrebbe rappresentare un fattore di rischio per l’osteoporosi, una patologia caratterizzata dalla perdita progressiva di massa ossea. Sembrerebbe quindi che per prevenire l’osteoporosi il latte non serva a molto, alcuni studi ci dicono addirittura che più di mezzo litro al giorno potrebbe favorirla. 

Quindi…è sicuramente importante assumere calcio (anzi, importantissimo), ma bere latte non è di certo l’unico modo per prevenire la comparsa dell’osteoporosi.

Le strategie condivise all’unanimità da tutto il mondo scientifico riguardo alla salvaguardia delle nostre ossa sono invece:

  • regolare esercizio fisico. L’attività fisica, vista come uno “stress” dall’organismo, lo induce a rafforzare le ossa per renderle più dense e resistenti. Camminare, danzare, correre, arrampicarsi sono attività fondamentali per la salute del nostro scheletro e dei nostri muscoli (che se ben strutturati, prevengono anche il rischio di cadute in età avanzata).

  • assumere dosi adeguate di vitamina D. La vitamina D “comunica" con intestino e reni, rispettivamente per incoraggiare l’assorbimento del calcio e per minimizzare la sua perdita attraverso le urine. Per la salute delle ossa, un’adeguata assunzione di vitamina D non è di certo meno importante dell’assunzione di calcio. Si trova nel latte e negli integratori, ed è prodotta endogenamente dalla nostra pelle in seguito all’esposizione al sole. 

  • assumere vitamina K. Aiuta moltissimo la regolazione di calcio e la formazione di ossa. Si trova nei broccoli, cavoletti di Bruxelles, lattuga e più in generale ortaggi a foglia verde.

E la questione tumori?

L’aspetto più controverso legato al consumo di latte vaccino è quello legato alle sue proteine (una fra tutte: la caseina), che sembrerebbero avere un effetto negativo sullo stato infiammatorio immunitario dell’organismo aumentando il rischio tantissime patologie, dal diabete alle malattie cardiovascolari, dai tumori ai disordini neurodegenerativi.

Ma quindi il consumo di latte aumenta il rischio di cancro?

NO. I dati oggi disponibili non permettono di giungere a tale conclusione e, contro alcuni tumori, latte e latticini possono avere addirittura un effetto protettivo (l’analisi globale più aggiornata dei dati disponibili sul tema ha evidenziato l’esistenza di prove solide a conferma di un effetto protettivo di latte e latticini contro il tumore del colon-retto!)

Per onestà intellettuale bisogna tuttavia segnalare che recentemente è stata pubblicata una panoramica delle revisioni sul tema, nella quale gli autori giungono alla conclusione che la qualità di questi lavori non è ancora sufficiente: servono studi di alta qualità e condotti secondo protocolli specifici per poter davvero caratterizzare la relazione tra latticini e cancro.

Guardando più in dettaglio i risultati si nota che per i tumori del tratto gastrointestinale (esofago, stomaco, pancreas e colon-retto) alcuni lavori mostrano una diminuzione del rischio di ammalarsi associata al consumo di latticini, mentre altri non trovano legami significativi. Per i tumori che dipendono dagli ormoni (prostata, seno, endometrio e ovaio), i risultati sono ancora più eterogenei e lo stesso vale per tumori che colpiscono rene, tiroide e polmone.


Quindi: per adesso la risposta “generale” alla fatidica domanda è NO, ma le cose nei prossimi anni potrebbero cambiare (magari non riguardo a tutti i tipi di tumore).

Nel frattempo, cosa fare quindi nella pratica quotidiana?
Affidarsi alle Linee Guida.

Le linee guida per una sana alimentazione italiana del Consiglio per la ricerca in agricoltura (CREA) e la società italiana di nutrizione umana (SINU) raccomandano MASSIMO 3 porzioni giornaliere di latte o yogurt (una porzione corrisponde a 125 ml di latte o 125 g di yogurt), alle quali si dovrebbero aggiungere da 2 a MASSIMO 3 porzioni a settimana di formaggio fresco (100 g ciascuna) o stagionato (50 g). Per chi non ha mai bevuto latte, può continuare a non berlo.

Scopri di più
Chiara Belli Chiara Belli

I legumi sono carboidrati o proteine?

Oggi torno da te con un argomento un po’ più “basic” (ma non meno importante!), dopo le riflessioni su diete & peso corporeo degli ultimi due appuntamenti.

Sicuramente, almeno una volta nella vita ti sarai chiest* a quale gruppo nutrizionale appartengono i legumi. Sono proteine o carboidrati? Come possono essere inseriti nell’alimentazione quotidiana in modo da bilanciare bene i nostri piatti? Questa domanda confonde molte persone, soprattutto all’inizio di un percorso di rieducazione alimentare.

Cerchiamo di fare chiarezza come sempre!

Con il termine legumi si intendono i semi commestibili delle piante appartenenti alla famiglia delle leguminose (papilionacee), che possono essere consumati  allo stato fresco, secco, surgelati e conservati. Appartengono a questa categoria le lenticchie, i ceci, i fagioli, le fave, la soia, i piselli, le cicerchie e i lupini.

Ebbene, i legumi sono un po' un ibrido nutrizionale, come pochi altri casi in natura. Se da una parte sono un’ottima fonte di proteine vegetali, dobbiamo anche considerare che sono composti principalmente da carboidrati complessi, che vengono digeriti lentamente e aiutano a mantenere stabili i livelli di zucchero nel sangue.

Al contrario di quanto si legge ormai dappertutto, i legumi non sono un’opzione di sostituzione 1:1 con le fonti di proteine animali(carne, pesce, uova e latticini): proprio per il loro alto contenuto in carboidrati, è necessario adottare dei piccoli accorgimenti per rendere il pasto che li contiene un po’ più proteico.

Per spiegarmi meglio, ti riporto di seguito qualche dato (sempre riferito a 100 g di prodotto):

Lenticchie: 51 g di carboidrati e 23 g di proteine
Ceci: 47 g di carboidrati e 21 g di proteine
Fagioli: 51 g di carboidrati e 22 g di proteine
Soia: 23 g di carboidrati e 37 g di proteine.

Vedi? Ad eccezione della soia, il contenuto di carboidrati su 100 g di legumi è quasi il doppio di quello delle proteine.

Dove sta la verità allora? Perché si dice che sono un’ottima fonte di proteine? Perché quando vengono combinati ad una fonte di cereali (riso, farro, orzo, pasta, ecc.) raggiungono una “completezza” dal punto di vista proteico presentando una gamma completa di aminoacidi essenziali (che altrimenti da soli non raggiungerebbero).

Gli amminoacidi essenziali sono fenilalanina, isoleucina, istidina, leucina, lisina, metionina, treonina, triptofano e valina. Tutti insieme formano delle proteine complete, strutturalmente presenti solo in prodotti di origine animale. Per raggiungere la stessa completezza amminocidiaca con prodotti vegetali, basta quindi semplicemente unire i legumi ai cereali. Sarà come consumare del carne, del pesce o delle uova.

I legumi freschi invece sono semi immaturi, ad elevato contenuto d'acqua, le cui caratteristiche nutrizionali li fanno rientrare nel gruppo delle verdure e degli ortaggi.

La biodisponibilità (ossia la facilità di digestione e di utilizzo da parte del nostro corpo) delle proteine vegetali dei legumi è leggermente inferiore rispetto a quelle animali. Per ovviare al problema però, possono essere adottate delle strategie:

  1. Ammollo prima della cottura: se si utilizzano i legumi secchi, si possono lasciare in acqua per diverse ore prima della cottura. Questo procedimento aiuta a ridurre alcuni fattori anti-nutrizionali naturalmente presenti nei legumi facilitando la digestione e l’assorbimento.

  2. Cottura lenta: cuocendo i i legumi a fuoco lento per tempi più lunghi, si rendono le proteine meno complesse dal punto di vista biochimico e quindi più facilmente assimilabili dalle cellule intestinali.

  3. Consumo di germogli di legumi: come i germogli di soia, che a differenza del seme maturo sono una fonte ricca di proteine facilmente digeribili e nutrienti essenziali.

In alternativa, si possono usare i legumi come accompagnamento a piatti a base di carne o pesce e verdure per aumentare l'apporto di fibra e ridurre l'apporto calorico complessivo (un grande classico è tonno e fagioli, ma anche seppie e piselli). Questa opzione è altrettanto valida quanto la prima, aumentando oltretutto la varietà proteica intrinseca: sia animale che vegetale.

Ad eccezione della soia (che è ricca di acidi grassi polinsaturi)
i legumi inoltre sono poveri di grassi e ricchissimi di fibre.

Scopri di più
Chiara Belli Chiara Belli

Il peso è l’unica determinante della salute?

In questo articolo fa abbiamo affrontato il discorso della forza di volontà, spiegando le basi neurobiologiche ed evoluzionistiche che dimostrano che i fattori coinvolti nella buona riuscita di un percorso alimentare sono tanti, e non sempre dipendenti dalla nostra coscienza.

Oggi volevo invece approfondire con te un discorso che mi sta particolarmente a cuore: le false credenze della cultura della dieta.

Ma facciamo un passo indietro. Cosa è la cultura della dieta?

Si riferisce a un insieme di credenze, pratiche, norme sociali e atteggiamenti che promuovono e sostengono il concetto che la perdita di peso e il controllo del peso corporeo siano di primaria importanza per la salute e il benessere. Questa cultura spesso enfatizza l'importanza di seguire diete rigide, restrittive e spesso inefficaci al fine di raggiungere un peso considerato "ideale" secondo gli standard sociali dominanti.

In questo costrutto, il successo personale e il valore individualepossono essere misurati in base alla capacità di raggiungere e mantenere un peso corporeo considerato accettabile o "sano" secondo i canoni sociali prevalenti. Questo può portare a una serie di conseguenze negative, tra cui disordini e disturbi alimentari, ansia, depressione, insicurezza corporea e un rapporto distorto con il cibo e il corpo.

La cultura della dieta può anche contribuire a perpetuare stereotipi e discriminazioni basate sul peso (quanto spesso le persone obese sono ritenute meno intelligenti, capaci e performanti? Troppo, purtroppo), promuovendo idee erronee riguardo alla correlazione tra peso corporeo e salute. Questo spesso porta a una mancanza di comprensione ed empatia verso coloro che non corrispondono agli standard di peso imposti dalla società.

È importante riconoscere che la cultura della dieta è dannosa e limitante, e molti professionisti negli ultimi anni stanno cercando di spostare l'attenzione verso un approccio più olistico alla salute che tenga conto dei molteplici fattori che influenzano il benessere complessivo di una persona, al di là del peso corporeo.

La definizione di salute è molto complessa, e non è legata solamente alla dieta e
all’esercizio fisico.

La cultura della dieta che spinge alla ricerca della magrezza ha creato una narrazione pericolosa sul controllo del peso (attraverso dieta e movimento) quale strumento imprescindibile per il raggiungimento di uno stato di salute.

L’OMS invece definisce la salute come “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale” che comprende moltissimi aspetti.

  1. Salute fisica: comprende il funzionamento ottimale del corpo, una sensazione di benessere generale, la gestione delle malattie e delle condizioni mediche, il riposo adeguato e l'assenza di dolore fisico.

  2. Salute mentale: la capacità di gestire lo stress, le emozioni e alcuni problemi di salute mentale come l'ansia e la depressione. La salute mentale implica anche una buona autostima, la capacità di mantenere relazioni sane e il raggiungimento di uno stato di equilibrio emotivo.

  3. Salute emotiva: la capacità di esprimere e regolare le emozioni in modo sano, di creare connessioni sociali significative, di avere un senso di appartenenza e di sentirsi soddisfatti e realizzati nel proprio percorso di vita.

  4. Benessere sociale: la qualità delle relazioni interpersonali, il sostegno sociale, l'inclusione nella comunità e la partecipazione a reti di supporto.

  5. Ambiente fisico e sociale (importantissimo!): l'accesso a un ambiente sicuro e salutare, risorse economiche adeguate, giustizia sociale ed equità, nonché la tutela dell'ambiente naturale.

Il peso e il BMI (indice di massa corporea) vengono patologizzati dalla cultura della dieta, senza prestare ascolto ai reali bisogni della persona e senza esplorare a 360 gradi tutti gli indicatori di salute per un inquadramento completo.

Spesso le persone con un peso elevato non vengono ascoltate dai propri professionisti sanitari allo stesso modo dei pazienti “normopeso”, ma liquidate con le raccomandazioni sul controllo del peso come se quest’ultimo fosse la radice di tutti, ma proprio di tutti i mali. Ciò ha delle profonde ripercussioni sul loro reale stato di salute psicofisica e può essere causa di ritardi diagnostici e terapeutici.

Ci tengo a specificare che il peso naturale di una persona dipende da una serie di fattori fisici, genetici, ambientali e comportamentali. In primis, i geni giocano un ruolo significativo nel determinare la predisposizione di una persona al peso corporeo. Gli individui possono ereditare determinati tratti genetici che influenzano il metabolismo, la distribuzione del grasso corporeo e altri fattori correlati al peso. Sappiamo anche che la quantità di massa muscolare, tessuto adiposo e altri tessuti corporei sono importantissimi. Le persone con una maggiore percentuale di massa muscolare infatti tendono ad avere un metabolismo più attivo e possono bruciare più calorie rispetto a coloro che hanno una maggiore percentuale di grasso corporeo.

Infine, ma non per ordine di importanza, l'accesso a cibo sano, le abitudini alimentari familiari, il livello di stress, l'educazione e il reddito possono influenzare il peso corporeo. Le persone che vivono in ambienti con accesso limitato a cibo sano o che affrontano condizioni socio-economiche svantaggiate possono essere più a rischio di obesità o sovrappeso o anche di disturbi del comportamento alimentare che portano ad eccessiva magrezza.

Una persona “magra” non è necessariamente più sana di una persona sovrappeso, che a sua volta può vivere in un ambiente più positivo, stimolante, affettivo e quindi “scalare” la cima della montagna della definizione di salute.

Con questo non voglio dire che il peso non debba più essere considerato e che non ci si debba preoccupare quando è presente un sovrappeso o un’obesità. Dico piuttosto che bisognerebbe indagare il PERCHE’ si è raggiunta quella condizione, e lavorare contemporaneamente su tanti fronti, non solo quello dell’alimentazione (men che meno con una dieta restrittiva, che fallisce nell’80% dei casi… di pari passo con la diminuzione della forza di volontà).

I corpi delle persone non devono essere più il teatro di giudizi e pregiudizi e sono validi non perché sono grassi o magri, abili o disabili, sani o malati, sono validi per il solo fatto che esistono,
e per questo meritano rispetto.

Scopri di più
Digressioni Chiara Belli Digressioni Chiara Belli

La fame emotiva non è solo una questione di forza di volontà

Ormai ho alle spalle quasi dieci anni di attività ambulatoriale, e durante tutto questo periodo ho avuto il privilegio (perché di questo si tratta!) di incontrare centinaia di pazienti con i loro vissuti, le loro storie, le loro necessità. Tutti si sono rivolti a me con una specifica richiesta di aiuto, e credimi quando ti dico che quello con cui più ho dovuto combattere sono stati la cultura della dieta e alcuni pregiudizi legati al concetto di forza di volontà nel saper gestire la cosiddetta “fame nervosa”.

Strano per una nutrizionista, vero? Viviamo in un’epoca di grandi cambiamenti dove la rigida ed impositiva cultura dietetica degli anni ‘50-’60-’70 si sta lentamente trasformando, ma purtroppo c’è ancora molto lavoro da fare. Un percorso dietetico volto al miglioramento del proprio benessere (che si tratti di dimagrimento, di aumento della massa muscolare o di trattamento di alcune patologie o condizioni) non è solo frutto della forza di volontà della persona coinvolta. Questo però è quello che ci hanno sempre fatto credere: la cultura della dieta spesso enfatizza la forza di volontà come un elemento cruciale nel perseguire e mantenere uno stile di vita sano e la identifica come lo specchio del valore della persona stessa. Basa le sue credenze sui due concetti di autocontrollo e disciplina, che però non sono sempre applicabili.

Il fatto di non riuscire a seguire sempre le indicazioni prescritte non dipende da una bravura più o meno marcata nel gestire le proprie emozioni, nel resistere alle tentazioni. Esistono molteplici fattori che influenzano le scelte alimentari, come l'accessibilità agli alimenti, l'ambiente sociale in cui si vive, le abitudini di vita e sì, anche la genetica. Tutti questi aspetti non possono essere trascurati, e pensare che “volere è potere” è estremamente semplicistico e riduttivo, oltre che pericoloso per coloro che non godono di una robusta autostima. 

La fame nervosa (o emotiva) fa parte biologicamente ed evolutivamente
della nostra specie.

Dobbiamo tornare nell’era paleolitica, in cui l’uomo primitivo non aveva la possibilità di mangiare in continuazione; spendeva interi giorni, settimane, addirittura mesi nel cacciare animali di grossa taglia o per incontrare luoghi con alberi da frutto o arbusti sui quali crescessero bacche non tossiche. Tralasciando il meccanismo di risparmio energetico che gli ha permesso di sopravvivere (e di cui parleremo magari in un’altra newsletter), dobbiamo tornare indietro nel tempo considerando il suo stato psico-emotivo conseguente a tanti giorni di incertezza, quando non sapeva se fosse stato in grado di sopravvivere o meno.

Nel corso dei millenni l’uomo ha costantemente sperimentato la sensazione di ansia nel non riuscire a procacciarsi del cibo, e il suo cervello con lui. Quando riusciva a farlo, mangiare in modo veloce era anche un’espressione della sofferenza passata durante l’astinenza, oltre che della paura che quel cibo potesse essere rubato e mangiato da qualcun altro. La tendenza alla compulsività quindi, affonda le sue primordiali radici anche nella paura che si possa morire di fame.

Va anche detto che nei momenti di abbondanza, il nostro cervello ha acquisito una plasticità tale nel riconoscere questa situazione producendo molti neurotrasmettitori del piacere e della gratificazione (serotonina, dopamina, endorfine, endocannabinoidi, ecc.). I circuiti cerebrali coinvolti in queste sensazioni si sono rafforzati, ingranditi, e hanno portato alla formazione del nostro cervello “moderno” più grande e più complesso. I nostri neuroni si sono abituati a dei veri e propri “boost” di piacere ogni qual volta che sperimentano un qualcosa di piacevole e gratificante. Il ricordo di quella sensazione molto appagante può portare ugualmente alla compulsività… esattamente come la paura di non avere del cibo.

La fame nervosa è un fenomeno naturale che merita rispetto e accettazione. Non è una colpa, ma piuttosto una connessione intrinseca con i nostri bisogni fisiologici.


Spiegate le basi biologiche ed evolutive della fame emotiva, forse ora è più semplice capire che il proprio comportamento alimentare non è sempre e solo frutto della forza di volontà.

Tutte le volte che mangiamo e sentiamo che le nostre emozioni prendono il sopravvento, dobbiamo considerare due aspetti.

1) Il cibo è un vero e proprio “ansiolitico meccanico”: il fatto di dover mordere, strappare, masticare, demolire fisicamente della materia più o meno solida funziona da forza di scarico su alcune situazioni di cui invece non abbiamo il controllo (situazione lavorativa frustrante? Contesto familiare difficile? Tormenti personali di varia natura?). Non a caso tutti i cibi che sono maggiormente ricercati per sedare o controllare le proprie emozioni sono quelli che richiedono un certo impegno meccanico: patatine fritte, biscotti, frutta secca. Capita raramente di sentirsi appagati emozionalmente mangiando uno yogurt o bevendo una tisana, perché manca la componente fondamentale della masticazione.

2) I cibi salati, zuccherati, grassi aumentano considerevolmente la produzione dei neurotrasmettitori del piacere. Mangiandoli, quindi, abbiamo una sensazione di temporaneo comfort dalle emozioni negative ma abbiamo anche una “rassicurazione energetica” primordiale: è come se il nostro cervello paleolitico intendesse che abbiamo finalmente cacciato un animale o incontrato dei frutti di bosco lungo il nostro cammino. Sperimentiamo quindi una sensazione di ricompensa che abbatte anche lo stress di sfamarci.

Anche se viviamo nell’epoca dell’abbondanza e in una parte del mondo dove il cibo non manca, il nostro cervello chiaramente non può saperlo (forse fra molte migliaia di anni le cose cambieranno?) e mette in atto tutta una serie di meccanismi fisiologici e metabolici che si manifestano poi con il nostro comportamento alimentare.

Ovviamente tutto questo non ci deve indurre a pensare di non avere potere decisionale (o di non poter lavorare sulla nostra
forza di volontà).
Dobbiamo solo capire che il nostro comportamento alimentare è frutto di una complicatissima rete di fattori in gioco.

Scopri di più
Digressioni, TAB: Torniamo alle basi! Chiara Belli Digressioni, TAB: Torniamo alle basi! Chiara Belli

Il mito delle diete detox: una visione critica sulla necessità ed efficacia

Oggi vorrei parlarti delle diete detox. Sono certa che in questi giorni ne hai sentito parlare attraverso tanti canali: tv, giornali, social sono pieni di consigli per “rimettersi in forma”, per “depurarsi” e per" “recuperare gli eccessi del Natale”.

Sai che mi piace sempre partire dall’inizio. E anche stavolta, non ti deluderò.

 

Il concetto di "dieta detox" (letteralmente “dieta che aiuta la detossinazione”), spesso è associato a quello di eliminazione di sostanze tossiche dal corpo. Tuttavia, il nostro organismo ha già un sistema di disintossicazione altamente efficiente, composto principalmente da fegato, reni, polmoni, intestino e cute (sì, anche la cute attraverso la sudorazione!) chiamati anche organi emuntori.

Il fegato è il principale organo coinvolto nella disintossicazione, metabolizzando ed eliminando le sostanze che il nostro corpo ritiene nocive. I reni filtrano il sangue, rimuovendo i rifiuti e l'eccesso di liquidi, stessa cosa fanno i polmoni con l’aria. Sicuramente già sai cosa fa l’intestino… La verità è che nessuna dieta detox può sostituire l'efficacia di questi organi nel mantenere il nostro corpo in equilibrio.

L'idea che una dieta particolare possa accelerare il processo di detossinazione non ha alcun fondamento scientifico.

Bere tisane drenanti, fare digiuni o mettere in pratica regimi ipocalorici altamente restrittivi che prevedono il consumo di un piccolo ventaglio di alimenti non aiuterà questi organi a lavorare con più efficienza.

Un altro falso mito che le diete detox alimentano è che oltre alla depurazione possa esserci un vantaggio in termini di perdita di peso e quindi di dimagrimento. Il peso però, e questo lo sappiamo bene, non si modifica semplicemente per un surplus calorico ma dipende da moltissime determinanti di salute che si creano nel tempo. Le variazioni di peso nel breve termine sono dovute prevalentemente all’accumulo di liquidi e al gonfiore intestinale e non sono indicative di cambiamenti duraturi. Per questo motivo non necessitano di detox.

Abbiamo già parlato dell’ambivalenza del digiuno intermittente e di dieta chetogenica con il puro scopo del dimagrimento a breve termine e della depurazione in questa newsletter, e abbiamo anche detto che hanno effetti limitati nel tempo e non sempre percorribili da tutti. Anche stavolta, il messaggio che voglio darti è chiaro: diete estreme che promettono di rimetterti in forma sono tra le più pericolose, non solo perché non fanno quel che promettono ma possono anche creare squilibri elettrolitici e nutrizionali.

Gli eccessi delle feste non hanno bisogno
di essere “recuperati”.

 Ma perché allora a volte sentiamo il bisogno di ritornare a mangiare in modo equilibrato e leggero, o addirittura di saltare i pasti o di digiunare per pochi giorni? Queste sensazioni non sono il messaggio chiaro che i nostri organi emuntori sono in difficoltà e quindi mangiando di meno possiamo aiutarli ad accelerare il processo di detossinazione?

No: la sensazione di pienezza è data da un eccessivo riempimento gastrico ed intestinale. L’affaticamento del fegato la maggior parte delle volte è silenzioso (quante persone senti lamentarsi di “mal di fegato”?), e soprattutto arriva dopo molti anni di comportamenti alimentari eccessivi e sbilanciati. Non dopo due settimane di festeggiamenti! E’ uno degli organi più grandi del nostro corpo (secondo solamente alla pelle) ed ha una fisiologia estremamente complessa disegnata dalla natura per lavorare alla massima efficienza e resilienza. Non sarà un estratto di frutta e verdura a dargli degli strumenti aggiuntivi per lavorare meglio, così come non saranno poche settimane di sbilanciamenti alimentari a mettere in crisi la sua attività.

Non dico che non sia giusto saltare dei pasti o di ridurre l’introito di cibo per alcuni giorni se ne sentiamo il bisogno. Dico che è sbagliato farlo pensando di:

  • poter dimagrire più rapidamente

  • dare “una scossa al metabolismo” per riprendersi in fretta

  • aiutare il fegato e tutti gli altri organi a lavorare meglio.

Piuttosto, è fondamentale concentrarsi su un'alimentazione equilibrata e sostenibile sul lungo termine. Includere una varietà di frutta, verdura, proteine magre, grassi buoni e carboidrati complessi fornisce al corpo e quindi anche agli organi emuntori i nutrienti necessari per funzionare correttamente riducendo il rischio di minare la loro fisiologia nel tempo.

Ti ho convinto Nome dell'abbonato a diffidare delle diete detox? Qual è la tua esperienza in merito? Sono curiosa di leggerti e di confrontarmi con te!

Scopri di più